Credere dopo Auschwitz? GIOVANNI TANGORRA - ebook
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"Sono loro ... la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono, perché sono troppo stanchi per comprenderla" (Primo Levi)
Il testo sollecita una meditazione sull'essere credenti in Dio alla luce delle tragedie a cui il mondo assiste periodicamente. La domanda più importante che come credenti ci si deve porre dinanzi a vicende come quella rappresentata dal nome Auschwitz è di sapere se anche la fede può subire interruzioni. Per non scuotere le nostre certezze siamo spesso portati a dimenticare i disastri della storia, facendo finta di nulla e lasciando immutato il nostro sistema religioso. Oltre che poco corretto, questo atteggiamento può forse essere uno dei motivi per cui il male non muore mai e continua a imporre la sua lacerante presenza.
GIOVANNI TANGORRA:
Docente di Teologia sistematica della Pontifica Università Lateranense, dove dirige il settore di specializzazione in ecclesiologia, e assistente nazionale del Meic.
Tra i suoi volumi: Credere dopo Auschwitz, San Lorenzo, Reggio Emilia 1996; Gesù Cristo comunicatore, Paoline, Milano 1997 (con F. Lambiasi); Dall’assemblea liturgica alla Chiesa, EDB, Bologna 1999; La Chiesa secondo il Concilio, EDB, Bologna 2007. Recentemente ha pubblicato Temi di ecclesiologia, Lateran University Press, Roma 2014 [Nota di luglio 2015].
DALL'INTRODUZIONE DELL'AUTORE
"L'olocausto - ha scritto Elie Wiesel - non richiama più il mistero dell'anatema; non suscita più paura o tremore, nemmeno insulti o compassione. Per voi è solo una disgrazia fra le altre, un pò più patologica delle altre. Vi entrate e ne uscite, per ritornare alle vostre preoccupazioni usuali. Avete pensato di poter immaginare l'inimmaginabile, e non avete visto nulla. Avete creduto di discernere l'indicibile, e non avete capito nulla".
Gli uomini come Wiesel, ostinati e per fortuna inguaribili guardiani della memoria, continuano a mettere in evidenza la necessità che Auschwitz diventi un paradigma permanente con cui tutti devono confrontarsi, non solo per il gusto del ricordo, ma perché nessun gruppo e nessuna minoranza debbano più patire quello che hanno sofferto gli ebrei durante il periodo nazista. Per questo non è lecito cancellare la memoria né astenersi dal giudizio. Non si tratta solo di un gesto d pietà verso le vittime innocenti, ma di un modo concreto per dichiarare la propria posizione, un prendere parte e schierarsi, affinché sia riconosciuta l'ingiustizia di chi ha compiuto quelle atrocità, e perché sia chiara la nostra posizione per il futuro.
3. Ecco quindi un altro testo su Auschwitz: perché, a che serve? Non si rischia di inflazionare l'argomento esorcizzandolo con le molte parole? Sì, è possibile ed è con molto imbarazzo che affido alla stampa questo scritto. Posso cavarmela dicendo che ho dovuto obbedire ad una richiesta del mio editore, il quale desiderava inserire nella sua collana un testo del genere, oppure posso affermare, a ragion veduta, che non è vero che si tratta di un argomento noto, almeno nelle sue implicazioni culturali e religiose ed inoltre che la bibliografia, soprattutto da parte di autori italiani è ancora molto scarsa. In realtà per me si è trattato di accettare una sfida personale. Più che la cronaca sono la fede e la comprensione della fede che chiamiamo teologia che qui si immergono nel cielo scomodo ed oscuro di Auschwitz. Mi sono dedicato allo studio di questo tema con timore, ricercando la documentazione dei testimoni senza neanche rendermi conto di come potevano essere spesse le tenebre e di come l'esperienza di questo tipo di notte avrebbe potute cambiare il senso di molte cose. Desidero perciò evitare subito alcuni equivoci: un intenzione di questo testo ha voluto aprire degli interrogativi. Alcuni sostengono che lo scrittore debba dare delle soluzioni, io penso invece che il suo compito sia quello di pungolare le coscienze, risvegliandole a dei problemi. Non mi guardo perciò indietro per riempire dei vuoti, ma per condividere lo stesso sguardo di desolazione e forse per lasciarmi contagiare dalla stessa inquietudine.
4. Gli spettacoli di morte di cui siamo stati testimoni in questi ultimi anni, dalla tragedia etnica nella ex-Jugoslavia agli eccidi della Georgia, dell'Ucraina, per arrivare a quelli del Rwanda e del Sudan, hanno messo allo scoperto la triste constatazione che l'onore non è ancora finito nella storia degli uomini. I massacri ancora sanguinanti dei balcani e dei paesi africani impediscono un'analisi distaccata del fenomeno. I corpi distesi sull'asfalto, gettati all'angolo delle strade, ammassati in fosse comuni, lasciano spazio a considerazioni di diverso genere, ma portano lo stesso marchio nauseante di un'umanità incapace di intraprendere la strada della pace e della tolleranza. Gli uomini sembrano perciò non aver ricavato alcuna lezione da Auschwitz. Lo stesso inganno delle parole, lo stesso linguaggio della violenza, gli stessi fanatismi fomentati da motivi nazionalistici e religiosi, la stessa impotenza della comunità internazionale. In questo modo sembra che siamo destinati a restar prigionieri del fallimento, delle stesse tragedie che si ripetono con puntualità ossessionante, con la differenza che ora, grazie ai televisori, abbiamo queste immagini continuamente dinanzi ai nostri occhi. Che fare? è possibile ancora coltivare la speranza in questo mondo? Alcuni sembrano scegliere la via del cinismo, altri quella della disperazione, ma le ragioni del cuore invitano a credere ancora. Auschwitz ha aperto nelle nostre coscienze una ferita che non si è ancora rimarginata e questi drammi contribuiscono a tenerla aperta. Una decisione che tutti noi, uomini qualsiasi, possiamo almeno tentare è propria quella di rifiutarci di essere spettatori inerti, rifiutarci di assistere al crollo delle nostre coscienze.
5. La domanda più importante che ci poniamo come credenti è quella di sapere se anche la fede può subire delle interruzioni di fronte a questi fatti di sangue, se non vi sia contraddizione nel binomio paternità-onnipotenza professato nelle parole del credo, e ancora se sia utile pregare visto che Dio ha più spesso lasciato inascoltate le invocazioni che provenivano dai luoghi del dolore. Per non scuotere le nostre certezze siamo spesso portati a dimenticare i disastri della storia, facendo finta di nulla e lasciando immutato il nostro sistema religioso. C'è sempre un angolo tranquillo nel tempo e nel mondo dove il percorso della fede può avanzare indisturbato. Oltre che poco corretto, quest'atteggiamento può forse essere uno dei motivi per cui il male non muore mai e continua ad impone la sua lacerante presenza. Finché l'uomo non sarà in grado di pone in discussione ciò che ha di più caro, la sua stessa fede in Dio, allora le sue risposte al male saranno sempre deboli e parziali. Non si può quindi far finta di nulla e continuare a pronunciare senza turbamenti le parole della fede e della preghiera. La sofferenza, e più ancora il silenzio di Dio nella sofferenza, provocano sconcerto, delusione, ribellione. Sono sentimenti che si congiungono e si compenetrano fino a formulare una precisa accusa che si presenta persino facile nel suo dispiegarsi: in queste condizioni è ancora possibile credere in Dio?
6. Si tratta allora di entrare nell'inferno di Auschwitz rifiutando di possedere una comprensione totalizzante. È un ingresso nello sheol, nel regno dei morti, dove solo disperatamente e quasi a tentoni, si può cercare una via di uscita. Il tentativo di questo saggio è quello di propone un itinerario, un percorso.